Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il possesso di un grande studio non obbliga automaticamente all’Irap
Il solo possesso di uno studio, seppur di grandi dimensioni, da parte di un professionista non costituisce bene strumentale eccedente il minimo e, di conseguenza, non costituisce condizione sufficiente per determinare l’assoggettamento all’Irap. In ogni caso, sono i giudici di merito che devono accertare, di volta in volta, se lo studio, per dimensioni e ubicazione, possa essere considerato valore di bene strumentale minimale o meno. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con ordinanza n.23155 del 16 novembre
Minusvalenze e black list, omissioni assimilate: ipotesi delineata in un question time In sede di risposta ad un’interrogazione parlamentare del 17 novembre (n.5-03814) - con la quale è stato sollevato il problema dell’indeducibilità delle minusvalenze derivanti dalla negoziazione di partecipazioni in soggetti quotati, qualora non sia inviata apposita comunicazione (o in caso di comunicazione incompleta o infedele) - è stata ipotizzata la possibilità di assimilare la sanzione per l'omesso invio delle comunicazioni relative alle minusvalenze a quella prevista per la mancata indicazione dei costi black list: ciò comporterebbe, pertanto, il passaggio dall’indeducibilità dei relativi componenti negativi al concetto di violazione formale.
Possibile modificare la dichiarazione con cause ostative in dichiarazione riservata di rimpatrio giuridico
Confermata la possibilità di modificare una dichiarazione riservata di rimpatrio fisico con cause ostative in una dichiarazione di rimpatrio giuridico con incarico alla fiduciaria di amministrazione anche senza intestazione. Assofiduciaria, con comunicazione n.70/2010, ha, infatti, reso nota una risoluzione delle Entrate, in cui viene condivisa questa soluzione. Gran parte delle dichiarazioni riservate per le quali non è possibile rimuovere le cause ostative, però, sono state presentate presso intermediari diversi dalle fiduciarie (banche, Sim, Sgr, eccetera). La nota dell’Agenzia afferma - in via, peraltro, incidentale - che l’incarico di amministrazione nell’ambito del “rimpatrio giuridico” deve essere conferito «alla stessa fiduciaria presso la quale è stata presentata la dichiarazione riservata», con ciò facendo sorgere il dubbio che, per l’Agenzia, il “cambio di intermediario” prima del perfezionamento dello scudo non sia consentito.
Rimanenze opere pluriennali: rilevano in capo all’appaltatore i costi relativi ai SAL
Per la determinazione delle rimanenze finali delle opere ultrannuali, nel caso di appalto per il quale una parte dei lavori vengano subappaltati, deve prevalere il principio di correlazione tra costi e ricavi, su cui si basa la valutazione “a corrispettivi” delle rimanenze, di cui all’art.93 del Tuir, rispetto al principio di competenza, di cui all’art.109 del Tuir medesimo. Ne consegue che rilevano in capo all’appaltatore i costi relativi ai SAL liquidati in via provvisoria al subappaltatore, che hanno concorso alla valutazione delle opere ultrannuali. A chiarirlo è l’Agenzia elle Entrate, che, con risoluzione n.117/E del 5 novembre, riconsidera la propria tesi precedente (R.M. n.260/E/09) e fa seguito a quanto recentemente affermato nell’istanza di interpello del 26 ottobre, presentata dall’Associazione dei costruttori (Ance).
L’immobile venduto a un’azienda legittima l’accertamento Irpef sulla plusvalenza
La presunzione che un bene immobile sia venduto al valore di mercato e, quindi, a quello accertato ai fini dell’imposta di registro, non è vinta dal rilievo che l’acquisto sia stato fatto da persone giuridiche, ben potendo queste, come quelle fisiche, pagare in nero il maggior prezzo rispetto a quello dichiarato nell’atto notarile; non può, infatti, assurgere al valore di presunzione contraria quella di insussistente veridicità delle scritture contabili. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con l’ordinanza n. 22793 del 9 novembre, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria.
Stop al ravvedimento operoso se sono già iniziate le verifiche ispettive
Il ravvedimento operoso non è ammissibile ove siano già iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento, stante quanto chiaramente disposto dall’art.13 del D.Lgs. n.472/97. Non ha, inoltre, rilievo il fatto che il versamento tardivo delle imposte - che ha dato origine alle sanzioni - sia avvenuto precedentemente. Questo è il principio enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 22781, depositata il 9 novembre.
Gli avvisi bonari non sono impugnabili: sono inviti al chiarimento
Non trova spazio nel quadro della giurisdizione tributaria vigente il ricorso contro una pretesa impositiva di fatto ancora “in bozza”, come nel caso delle comunicazioni indirizzate ai contribuenti e ai sostituti d’imposta – i cc.dd. “avvisi bonari” - il cui unico fine consiste nell’evitare l’eventuale reiterazione di errori e, al contempo, nel consentire al contribuente di evidenziare dati e notizie non considerati dall’Amministrazione finanziaria. In questo caso si tratta di comunicazioni che si sostanziano in un mero invito al contribuente a fornire, in via preventiva, elementi chiarificatori delle anomalie riscontrate in sede di liquidazione automatizzata della dichiarazione, che, dunque, non sono espressione di un potere pubblicistico autoritativo e, come tali, non producono effetti negativi immediati per il destinatario. In pratica, ai fini dell’impugnabilità, un atto tributario emanato dall’Amministrazione Finanziaria, spiega il documento di prassi, allineandosi con le recenti pronunce in materia della Corte di Cassazione, deve qualificarsi come avviso di accertamento o di liquidazione. Questi atti, infatti, a differenza degli “avvisi bonari”, sono espressione d’una pretesa impositiva definita e non condizionata. Requisiti questi che aprono la strada, di fatto, ad un'eventuale impugnazione da parte del contribuente. Questo vale anche se l’atto non si chiude con l’intimazione al ricorso a strumenti esecutivi, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto. Questo è quanto disposto dall'Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 110 del 22/10/10
Debenza Irap dello studio associato: possibile provare l’assenza dI autonoma organizzazione
L'esercizio in forma associata di una professione è circostanza di per sé idonea a far presumere l'esistenza di una autonoma organizzazione di strutture e mezzi, ancorché non di particolare onere economico, nonché dell'intento di avvalersi della reciproca collaborazione e competenza, ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, cosi da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio, con la conseguenza che legittimamente il reddito di uno studio associato viene assoggettato ad Irap; a meno che il contribuente non dimostri che tale reddito è derivato dal solo lavoro professionale dei singoli associati. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22386 del 3 novembre 2010.
Il redditometro alla verifica delle intestazioni
Con il nuovo redditometro non rileva più la disponibilità di un determinato bene, ma assumeranno rilevanza le spese del contribuente, ancorché rappresentate attraverso una serie di coefficienti. Prima delle modifiche intervenute con il Dl 78/2010, l'accertamento sintetico cosidetto "puro" si basava generalmente sulla spesa effettiva, anche se la norma parlava di «elementi e circostanze di fatto certi» su cui eseguire la rettifica. Il dato letterale della norma aveva consentito, in limitati casi, di effettuare l'accertamento anche su elementi diversi dalla spesa, come l'esistenza di capitali all'estero (commissione tributaria centrale 14 aprile 1992 n. 2907), le rilevanti disponibilità finanziarie e il tenore di vita desumibile da manifestazioni di notoria e non contestata agiatezza (commissione tributaria centrale 22 novembre 1988, n. 7969), la titolarità di rilevanti partecipazioni azionarie (Cassazione 5052/1987). Ad ogni modo, gran parte degli accertamenti sintetici fino a qui effettuati sono risultati fondati sul redditometro, il quale, attraverso il Dm 10 settembre 1992 e successive modifiche, risultava basato sulla disponibilità dei beni e dei servizi individuati dallo stesso decreto (residenze principali e secondarie, autovetture, imbarcazioni, eccetera). La disponibilità rilevava a prescindere dall'intestazione del bene, per cui, nel caso di immobile intestato a una società, se la disponibilità veniva ricondotta a una persona fisica, quest'ultima poteva risultare destinataria del redditometro. Lo stesso poteva accadere nel caso di beni intestati ad altri soggetti (ad esempio, all'interno della famiglia): il principio era che occorreva sempre individuare chi aveva l'effettiva disponibilità del bene. Il Dm 10 settembre 1992 prevedeva che gli importi presunti ottenuti con il redditometro potevano essere proporzionalmente ridotti (o annullati) se il contribuente dava dimostrazione che il bene o il servizio risultava nella disponibilità anche di altri soggetti, oppure che per certi beni le spese erano sopportate da altri, nonché nelle ipotesi in cui il bene risultava utilizzato nell'attività d'impresa o lavoro autonomo. Tipico caso era quello delle autovetture utilizzate anche nell'attività imprenditoriale o professionale. In quest'ultima ipotesi i comportamenti degli uffici si sono dimostrati (e si dimostrano) differenti: alcuni considerano le percentuali dell'articolo 164 del Tuir (40%, 80% per gli agenti, per riferirle all'attività d'impresa), altri, invece, attribuiscono, in maniera più semplice (e forse più corretta), il 50% ai fini del redditometro. Con la manovra 2010, cambia il principio dell'accertamento basato sul redditometro, mentre rimane fisso il principio che il sintetico "puro" risulta determinato dalle spese effettive del contribuente. Con il Dl 78/2010 viene stabilito che l'accertamento basato sul redditometro si baserà sul contenuto induttivo di elementi di capacità contributiva, tenendo conto del nucleo familiare e dell'area geografica di appartenenza. In attesa dell'emanazione del decreto attuativo (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), si può affermare che il redditometro dovrà fondarsi comunque su spese, ancorché figurative in base a dei coefficienti, visto che la norma afferma che il contribuente avrà la possibilità di fornire la prova contraria che la spesa è stata determinata dal reddito dei vari anni, da redditi esenti o assoggettati a tassazione a titolo d'imposta, da accadimenti legittimamente esclusi dalla base imponibile. Di conseguenza, non rileverà più la disponibilità del bene. L'amministrazione dovrà quindi, con i nuovi coefficienti, individuare anche le situazioni in cui i beni vengono intestati a determinate società, ma vengono effettivamente utilizzati - sopportandone le spese - da persone fisiche nella sfera personale e familiare, così come quelle ipotesi in cui i beni vengono impiegati parzialmente in un'attività d'impresa o lavoro autonomo.
Fonte: ilsole24ore del 3 novembre 2010
Gli avvisi bonari non sono impugnabili: sono solo inviti al chiarimento
Non trova spazio nel quadro della giurisdizione tributaria vigente il ricorso contro una pretesa impositiva di fatto ancora “in bozza”, come nel caso delle comunicazioni indirizzate ai contribuenti e ai sostituti d’imposta – i cc.dd. “avvisi bonari” - il cui unico fine consiste nell’evitare l’eventuale reiterazione di errori e, al contempo, nel consentire al contribuente di evidenziare dati e notizie non considerati dall’Amministrazione finanziaria. In questo caso, come chiarisce la risoluzione n.110/E del 22 ottobre, si tratta di comunicazioni che si sostanziano in un mero invito al contribuente a fornire, in via preventiva, elementi chiarificatori delle anomalie riscontrate in sede di liquidazione automatizzata della dichiarazione, che, dunque, non sono espressione di un potere pubblicistico autoritativo e, come tali, non producono effetti negativi immediati per il destinatario. In pratica, ai fini dell’impugnabilità, un atto tributario emanato dall’Amministrazione finanziaria, spiega il documento di prassi, allineandosi con le recenti pronunce in materia della Corte di Cassazione, deve qualificarsi come avviso di accertamento o di liquidazione. Questi atti, infatti, a differenza degli “avvisi bonari”, sono espressione d’una pretesa impositiva definita e non condizionata. Requisiti questi che aprono la strada, di fatto, ad un eventuale impugnazione da parte del contribuente. Questo vale anche se l’atto non si chiude con l’intimazione al ricorso a strumenti esecutivi, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto.
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