Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Computo degli ammortamenti deducibili da parte della conferitaria
L’Associazione italiana dei dottori commercialisti, con la norma di comportamento n.178 diffusa ad ottobre, ha affrontato il tema del computo degli ammortamenti deducibili da parte delle società conferitarie in presenza di ammortamenti civilistici inferiori a quelli ammessi fiscalmente. In ipotesi di conferimento di azienda o di ramo d’azienda soggetto alla disciplina di cui all’art.176 del Tuir, la società conferitaria è ammessa a computare gli ammortamenti avendo come riferimento il costo per la società conferente. Se gli stessi non sono in tutto o in parte imputati a conto economico a causa delle tecniche contabili o valutative adottate, la deducibilità è ammessa in applicazione dell’art.109, co.4, lett.b del Tuir. Se invece i minori ammortamenti contabili derivano dalla previsione di un allungamento della residua vita utile dei beni, gli stessi sono deducibili nei limiti dell’importo imputato a conto economico.
Comunicazione delle operazioni Iva con Paesi Black list : le istruzioni
I contribuenti minimi e le nuove iniziative produttive rimangono fuori dall’obbligo di comunicazione delle operazioni con attori economici ubicati nei paradisi fiscali. Questi ultimi sono individuati all’interno della lista dei Paesi con regime fiscale privilegiato ai fini della presunzione di residenza delle persone fisiche e in quella delle imprese estere controllate o collegate (rispettivamente, D.M. 4/05/99 e D.M. 21/11/01). Le liste vanno applicate congiuntamente, a prescindere dalla natura giuridica e dall’attività svolta dall’operatore. Ciò vuol dire che, per il titolare di partita Iva, l’obbligo di comunicazione scatta se la controparte è situata in un Paese presente in almeno una delle due liste. Sono questi alcuni dei chiarimenti contenuti nella circolare n.53/E, che affronta il tema delle comunicazioni che gli operatori economici devono effettuare per le operazioni con Paesi black list, come previsto dal D.L. n.40/10, per contrastare le frodi fiscali e finanziarie internazionali e nazionali, soprattutto le cc.dd. “carosello” e le “cartiere”.
Arriva il primo Principio contabile per i bilanci del Terzo settore
È stata pubblicata la bozza del primo Principio contabile per il Terzo settore. Il documento, redatto dal tavolo tecnico congiunto tra Cndcec, Agenzia per le Onlus e Oic, sarà ora sottoposto ad una consultazione pubblica, che si concluderà il 15 gennaio 2011. Il Principio contabile in questione è rivolto a tutte le organizzazioni che operano nel c.d. “terzo settore” ed è finalizzato a illustrare i principi generali che sottendono la redazione del bilancio. A questo documento ne seguiranno altri, dedicati alla contabilizzazione delle poste di bilancio che assumono maggiore significatività per il non profit, come, per esempio, liberalità e immobilizzazioni.
L'apporto dei soci si misura con il registro DI GAIANI
Apporti dei soci alle società senza imposta di registro. Anche la rinuncia a finanziamenti o la loro trasformazione in versamenti in conto capitale non comporta enunciazione del precedente contratto se avviene medianti atti da non registrare. Dopo la sentenza 15585/2010 della Cassazione, le società valutano le diverse modalità con cui operare interventi di ricapitalizzazione da parte dei soci.
I finanziamenti soci, spesso utilizzati nelle società a ristretta base per sostenere finanziariamente la partecipata, sono somme versate con un preciso obbligo di restituzione per la società. I versamenti in questione, sia fruttiferi che infruttiferi (in questo caso in deroga all'articolo 1815 del codice civile), sono riconducibili allo schema del mutuo e devono pertanto prevedere un puntuale termine di rimborso (scadenza predeterminata), ovvero un diritto alla restituzione da parte del socio in qualunque momento salvo un certo preavviso. I finanziamenti sono, in linea di massima, soggetti alle norme sulla raccolta del risparmio presso soci (articolo 11, decreto legislativo 385/93 e delibera Cicr 19 luglio 2005) che richiedono particolari requisiti per la loro effettuazione (previsione statutaria, partecipazione non inferiore al 2% e iscrizione nel libro soci da almeno tre mesi). Ai fini dell'imposta di registro, il contratto di finanziamento rientra tra gli atti da registrare in termine fisso con applicazione dell'aliquota del 3% (decreto 131/86), salvo lo stesso non sia redatto mediante scambio di corrispondenza, nel qual caso la registrazione (al 3%) è prevista solo «in caso d'uso» (articolo 1, lettera a, Tariffa, parte II). Se il socio-finanziatore è una società, e il finanziamento è fruttifero, l'operazione rientra in ambito Iva, seppur esente da imposta, e il contratto sarà comunque soggetto a registrazione in caso d'uso e a tassa fissa (Dpr 131/86).
I versamenti a fondo perduto o in conto capitale si configurano, invece, quando i soci, pur non procedendo a un formale aumento di capitale, decidono di sopperire al fabbisogno di capitale con nuovi conferimenti. Sono dunque importi versati senza obbligo di restituzione per la società, che vengono acquisiti in via definitiva senza vincoli di destinazione, dovendo figurare nel patrimonio netto alla voce A)7 «Altre riserve». L'effettuazione del versamento, qualora formalizzata in un verbale di assemblea ordinaria o attraverso una lettera del socio, non comporta alcuna tassazione ai fini dell'imposta di registro. La posta «versamenti in conto capitale» può essere alimentata anche da rinunce dei soci al rimborso di precedenti finanziamenti. In questi casi, i principi contabili impongono la contabilizzazione direttamente nel patrimonio netto (ed eventualmente a copertura delle perdite ivi collocate) senza invece transito nei proventi del conto economico. L'articolo 22 del Dpr 131/86 stabilisce che se in un atto sottoposto a registrazione sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati, intervenuti tra le stesse parti dell'atto che contiene l'enunciazione, l'imposta è dovuta anche sugli atti enunciati. La Corte di Cassazione, richiamando questa norma, ha sancito (sentenza 30 giugno 2010, n. 15585) l'obbligo di tassazione al 3% (quale atto enunciato) di un precedente finanziamento soci (non registrato perché verbale o perché formalizzato per corrispondenza), qualora, in un verbale di assemblea straordinaria (aumento di capitale sociale), lo stesso venga richiamato in sede di rinuncia per la copertura di perdite. Senza entrare nel merito di quanto affermato dalla Cassazione, va sottolineato che nessuna enunciazione fiscalmente rilevante si ha nel frequente caso in cui la rinuncia al credito o il suo utilizzo per una ricapitalizzazione avviene al di fuori di un verbale notarile o comunque non in atti sottoposti alla registrazione per obbligo o volontariamente (ad esempio, in un verbale di assemblea ordinaria o per corrispondenza).
Fonte: ilsole24ore del 28 ottobre 2010
Sanzione penale a chi occulta fatture reperibili dai clienti (di IORIO)
Il contribuente risponde del reato di occultamento o distruzione di scritture contabili se i verificatori non rinvengono alcune fatture, reperite, successivamente, presso i clienti. A chiarirlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 38224 depositata il 28/10/2010. Al titolare di un'impresa meccanica veniva contestato l'occultamento o la distruzione delle scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume d'affari, in quanto la Guardia di finanza non aveva rinvenuto alcune fatture, acquisite, invece, presso i clienti. Il Gip assolveva il contribuente ritenendo che il fatto non costituiva reato, atteso che non era possibile stabilire se, il mancato rinvenimento, si riferisse a un'omissione originaria, facendo venir meno tanto l'occultamento quanto la distruzione, o a una sopravvenuta attività di eliminazione invece penalmente rilevante. Ricorreva per Cassazione il pubblico ministero il quale, al contrario, evidenziava che l'omessa conservazione delle scritture contabili era provata e integrava quindi il reato in questione atteso che, nella specie, le fatture erano state sicuramente emesse e consegnate ai clienti dell'impresa. Il delitto previsto dall'articolo 10 punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l'Iva, o di consentire l'evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. La Corte ha innanzitutto ricordato che per la configurazione di questo delitto, oltre al dolo specifico di evasione, deve verificarsi l'impossibilità di ricostruire il volume di affari o dei redditi. Tale impossibilità è di tipo relativo, cioè deve essere riferita alla situazione interna aziendale, e non assume rilevanza se, in concreto, sia possibile procedere alla ricostruzione mediante elementi e dati raccolti all'esterno e in modo indiretto. Occorre, inoltre, la prova dell'istituzione dei documenti contabili in questione. Nel caso di specie, conclude la sentenza, era stato accertato che le fatture erano state emesse per prestazioni a favore di clienti presso cui poi sono state anche reperite. Da qui la sussistenza del reato. Va evidenziato che il giudice di primo grado aveva dato atto dell'oggettiva impossibilità di ricostruire, nel caso di specie, il volume di affari, e che l'avvenuta acquisizione delle fatture presso i clienti non aveva avuto effetto sanante. La circostanza appare importante, altrimenti potrebbe ipotizzarsi una condotta penale ogni qualvolta non vengano rinvenuti dai verificatori documenti fiscali regolarmente contabilizzati e dichiarati.
Fonte: ilsole24ore del 29 ottobre 2010
Possibile la rivalutazione dei terreni, con recupero di quanto già versato
Il contribuente che ha proceduto a rideterminare il valore dei terreni ad una certa data, ove lo ritenga opportuno, può usufruire della norma agevolativa successivamente emanata. In tal caso, dovrà determinare il valore dei terreni alla data del 1° gennaio 2010, mediante una nuova perizia giurata di stima, nonché procedere al versamento della relativa imposta sostitutiva, richiedendo il rimborso dell’importo precedentemente versato. In tale ipotesi, se il contribuente si è avvalso della rateazione dell’imposta dovuta, non è tenuto a versare la rata o le rate successive, relative alla precedente rideterminazione. Ciò anche nel caso in cui la seconda perizia giurata di stima riporti un valore del terreno inferiore a quello risultante dalla perizia precedente. Ad ogni modo, si fa presente che le perizie devono essere redatte con le responsabilità sancite dall’art.64, c.p.c.. Ad affermarlo è l’Agenzia delle Entrate con risoluzione n.111/E del 22 ottobre.
Gli avvisi bonari non sono impugnabili: sono solo inviti al chiarimento
Non trova spazio nel quadro della giurisdizione tributaria vigente il ricorso contro una pretesa impositiva di fatto ancora “in bozza”, come nel caso delle comunicazioni indirizzate ai contribuenti e ai sostituti d’imposta – i cc.dd. “avvisi bonari” - il cui unico fine consiste nell’evitare l’eventuale reiterazione di errori e, al contempo, nel consentire al contribuente di evidenziare dati e notizie non considerati dall’Amministrazione finanziaria. In questo caso, come chiarisce la risoluzione n.110/E del 22 ottobre, si tratta di comunicazioni che si sostanziano in un mero invito al contribuente a fornire, in via preventiva, elementi chiarificatori delle anomalie riscontrate in sede di liquidazione automatizzata della dichiarazione, che, dunque, non sono espressione di un potere pubblicistico autoritativo e, come tali, non producono effetti negativi immediati per il destinatario. In pratica, ai fini dell’impugnabilità, un atto tributario emanato dall’Amministrazione finanziaria, spiega il documento di prassi, allineandosi con le recenti pronunce in materia della Corte di Cassazione, deve qualificarsi come avviso di accertamento o di liquidazione. Questi atti, infatti, a differenza degli “avvisi bonari”, sono espressione d’una pretesa impositiva definita e non condizionata. Requisiti questi che aprono la strada, di fatto, ad un eventuale impugnazione da parte del contribuente. Questo vale anche se l’atto non si chiude con l’intimazione al ricorso a strumenti esecutivi, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto.
Il redditometro alla verifica delle intestazioni
Con il nuovo redditometro non rileva più la disponibilità di un determinato bene, ma assumeranno rilevanza le spese del contribuente, ancorché rappresentate attraverso una serie di coefficienti. Prima delle modifiche intervenute con il Dl 78/2010, l'accertamento sintetico cosidetto "puro" si basava generalmente sulla spesa effettiva, anche se la norma parlava di «elementi e circostanze di fatto certi» su cui eseguire la rettifica. Il dato letterale della norma aveva consentito, in limitati casi, di effettuare l'accertamento anche su elementi diversi dalla spesa, come l'esistenza di capitali all'estero (commissione tributaria centrale 14 aprile 1992 n. 2907), le rilevanti disponibilità finanziarie e il tenore di vita desumibile da manifestazioni di notoria e non contestata agiatezza (commissione tributaria centrale 22 novembre 1988, n. 7969), la titolarità di rilevanti partecipazioni azionarie (Cassazione 5052/1987). Ad ogni modo, gran parte degli accertamenti sintetici fino a qui effettuati sono risultati fondati sul redditometro, il quale, attraverso il Dm 10 settembre 1992 e successive modifiche, risultava basato sulla disponibilità dei beni e dei servizi individuati dallo stesso decreto (residenze principali e secondarie, autovetture, imbarcazioni, eccetera). La disponibilità rilevava a prescindere dall'intestazione del bene, per cui, nel caso di immobile intestato a una società, se la disponibilità veniva ricondotta a una persona fisica, quest'ultima poteva risultare destinataria del redditometro. Lo stesso poteva accadere nel caso di beni intestati ad altri soggetti (ad esempio, all'interno della famiglia): il principio era che occorreva sempre individuare chi aveva l'effettiva disponibilità del bene. Il Dm 10 settembre 1992 prevedeva che gli importi presunti ottenuti con il redditometro potevano essere proporzionalmente ridotti (o annullati) se il contribuente dava dimostrazione che il bene o il servizio risultava nella disponibilità anche di altri soggetti, oppure che per certi beni le spese erano sopportate da altri, nonché nelle ipotesi in cui il bene risultava utilizzato nell'attività d'impresa o lavoro autonomo. Tipico caso era quello delle autovetture utilizzate anche nell'attività imprenditoriale o professionale. In quest'ultima ipotesi i comportamenti degli uffici si sono dimostrati (e si dimostrano) differenti: alcuni considerano le percentuali dell'articolo 164 del Tuir (40%, 80% per gli agenti, per riferirle all'attività d'impresa), altri, invece, attribuiscono, in maniera più semplice (e forse più corretta), il 50% ai fini del redditometro. Con la manovra 2010, cambia il principio dell'accertamento basato sul redditometro, mentre rimane fisso il principio che il sintetico "puro" risulta determinato dalle spese effettive del contribuente. Con il Dl 78/2010 viene stabilito che l'accertamento basato sul redditometro si baserà sul contenuto induttivo di elementi di capacità contributiva, tenendo conto del nucleo familiare e dell'area geografica di appartenenza. In attesa dell'emanazione del decreto attuativo (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), si può affermare che il redditometro dovrà fondarsi comunque su spese, ancorché figurative in base a dei coefficienti, visto che la norma afferma che il contribuente avrà la possibilità di fornire la prova contraria che la spesa è stata determinata dal reddito dei vari anni, da redditi esenti o assoggettati a tassazione a titolo d'imposta, da accadimenti legittimamente esclusi dalla base imponibile. Di conseguenza, non rileverà più la disponibilità del bene. L'amministrazione dovrà quindi, con i nuovi coefficienti, individuare anche le situazioni in cui i beni vengono intestati a determinate società, ma vengono effettivamente utilizzati - sopportandone le spese - da persone fisiche nella sfera personale e familiare, così come quelle ipotesi in cui i beni vengono impiegati parzialmente in un'attività d'impresa o lavoro autonomo.
Fonte: ilsole24ore del 3 novembre 2010
Debenza Irap dello studio associato: possibile provare l’assenza dI autonoma organizzazione
L'esercizio in forma associata di una professione è circostanza di per sé idonea a far presumere l'esistenza di una autonoma organizzazione di strutture e mezzi, ancorché non di particolare onere economico, nonché dell'intento di avvalersi della reciproca collaborazione e competenza, ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, cosi da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio, con la conseguenza che legittimamente il reddito di uno studio associato viene assoggettato ad Irap; a meno che il contribuente non dimostri che tale reddito è derivato dal solo lavoro professionale dei singoli associati. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22386 del 3 novembre 2010.
Gli avvisi bonari non sono impugnabili: sono inviti al chiarimento
Non trova spazio nel quadro della giurisdizione tributaria vigente il ricorso contro una pretesa impositiva di fatto ancora “in bozza”, come nel caso delle comunicazioni indirizzate ai contribuenti e ai sostituti d’imposta – i cc.dd. “avvisi bonari” - il cui unico fine consiste nell’evitare l’eventuale reiterazione di errori e, al contempo, nel consentire al contribuente di evidenziare dati e notizie non considerati dall’Amministrazione finanziaria. In questo caso si tratta di comunicazioni che si sostanziano in un mero invito al contribuente a fornire, in via preventiva, elementi chiarificatori delle anomalie riscontrate in sede di liquidazione automatizzata della dichiarazione, che, dunque, non sono espressione di un potere pubblicistico autoritativo e, come tali, non producono effetti negativi immediati per il destinatario. In pratica, ai fini dell’impugnabilità, un atto tributario emanato dall’Amministrazione Finanziaria, spiega il documento di prassi, allineandosi con le recenti pronunce in materia della Corte di Cassazione, deve qualificarsi come avviso di accertamento o di liquidazione. Questi atti, infatti, a differenza degli “avvisi bonari”, sono espressione d’una pretesa impositiva definita e non condizionata. Requisiti questi che aprono la strada, di fatto, ad un'eventuale impugnazione da parte del contribuente. Questo vale anche se l’atto non si chiude con l’intimazione al ricorso a strumenti esecutivi, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto. Questo è quanto disposto dall'Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 110 del 22/10/10
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